Ormai è evidente: la privatizzazione delle grandi aziende di stato italiane è stata un fallimento totale.
La privatizzazione italiota venne avviata in nome della “competitività e della concorrenza”, esattamente 40 anni fa, l’11 luglio 1992, quando Amato, il “Dottor Sottile”, e Draghi, il “Super Mario”, erano rispettivamente Presidente del Consiglio dei Ministri e Direttore generale del Tesoro. Loro due furono tra i principali rottamatori del precedente modello economico nazionale, mista pubblico-privato. Il modello italiano di Stato come imprenditore sociale si era sviluppato fin da quando Giolitti statalizzò le ferrovie nel 1905. Nel 1991, quando l’Italia raggiunse il rango di quarta potenza mondiale, tre quarti del credito commerciale era erogato da banche pubbliche, mentre le imprese a partecipazione statale e le aziende municipalizzate erano responsabili di un quinto degli investimenti, nelle funzioni imprenditoriali più strategiche: trasporti, energia, infrastrutture, comunicazioni, elettromeccanica, servizi ambientali, finanza, chimica, ecc. Gli enti pubblici economici italiani erano stati studiati in tutto il mondo, tanto da ispirare l’istituzione di grandi holding pubbliche inglesi, svedesi, austriache e perfino cinesi.
Le privatizzazioni neoliberiste, avviate in Italia dal Governo Amato, con il Decreto n. 333 del 11 luglio 1992, hanno peggiorato la struttura economica del Belpaese: hanno marginalizzato tutte le funzioni di politica economico-sociale proprie dell’impresa pubblica. Le ultime imprese a partecipazione statale sopravvissute, come ENI, ENEL, Poste, Ferrovie, Terna, Fincantieri, sono ormai finanziarizzate e si sono trasformate in grandi imprese private: in esse lo Stato è passivo, con poche spuntate leve decisionali (ad es. non può più reinvestire all’interno i profitti, invece di remunerare lautamente con i dividendi gli investitori privati, molti dei quali esteri).
I recenti guai del settore energetico italiano sono solo l’ennesimo esempio di fallimento delle privatizzazioni: ENI, ENEL hanno lesinato gli investimenti su decarbonizzazione o diversificazione delle fonti; quindi ora non possono garantire la sicurezza energetica del Belpaese. In fondo la questione è semplice: il grado di civiltà di uno Stato si misura dalla qualità dei servizi sociali che eroga ai cittadini. Le società privatizzate cercano di risparmiare, centellinano gli investimenti meno redditizi, soprattutto in tempo di crisi, marginalizzando sempre più il Belpaese rispetto alle urgenti questioni di etica sociale connesse a sostenibilità, sicurezza, salute, transizione ecologica, energetica e tecnologica.
La sostenibilità, la cultura, la bellezza, la salute, non possono essere consegnate completamente alle logiche di mercato. Senza uno Stato (pro-)motore economico (pro-)attivo, né la giustizia sociale, né la democrazia, né la pace, né la tutela ambientale, né la sanità e nemmeno l’economia di mercato funzioneranno correttamente. Queste riflessioni rilanciano, per l’ennesima volta, il pensiero e le proposte di politica economica di John Maynard Keynes (1883-1946), uno dei grandi economisti che negli ultimi tre secoli, hanno contribuito alla comprensione, non solo delle funzioni del sistema capitalistico di mercato, ma anche delle sue dirette connessioni con la struttura del sistema sociale in cui quelle funzioni si svolgono. Keynes si formò nella temperie della situazione economico-politica che travolse il mondo dopo la fine della Grande Guerra e dopo lo scoppio della Grande Depressione del 1929-1932. Da ciò nacque il suo convincimento delle grandi imperfezioni delle leggi di mercato e della incapacità della teoria economica tradizionale nello spiegare le cause della disoccupazione che aveva sconvolto le economie di mercato più avanzate. Nella sua “Teoria generale” Keynes giunse alla conclusione che lo Stato, nei periodi di crisi, dovrebbe attuare politiche d’intervento forti per assicurare il pieno impiego dei fattori produttivi, agendo con la sua iniziativa diretta. Il liberismo ha soppiantato il le politiche keynesiane negli ultimi anni del XX secolo con il diffondersi della globalizzazione; per indicare le politiche economiche di Margaret Thatcher e di Ronald Reagan venne coniato il termine “neo-libesrismo”. Il dibattito politico-economico tra i sostenitori del liberismo ed i keynesiani sembrava oramai cessato, con la vittoria dei primi sui secondi. Ora invece le teorie di Keynes tornano prepotentemente in risalto, soprattutto alla luce della tempesta perfetta determinata delle crisi ambientale, energetica, politica, economica. Le indicazioni di Keynes si pongono di fatto come la principale alternativa alla fallimentare politica di privatizzazione industriale neoliberista. Il fallimento neoliberista potrebbe trasformarsi in un successo se ne imparassimo la lezione.