In generale il “price-cap” (tetto di prezzo) è un metodo di regolazione dei prezzi dei servizi pubblici, forniti da aziende pubbliche o private, per soddisfare i bisogni essenziali della popolazione, nei settori più disparati: energia, trasporti, telecomunicazioni, acqua potabile, tutela ambientale, ecc. In sostanza con il price-cap il regolatore pubblico limita l’incremento di un prezzo di bene-servizio pubblico, con un doppio intento: innanzitutto tutelare la popolazione ed inoltre favorire l’innovazione (limita i guadagni delle aziende che non ottimizzano la propria produttività).
Mettere un tetto al prezzo dei servizi di erogazione dell’energia è certamente auspicabile, soprattutto se ciò favorisce l’eco-innovazione. Ad esempio il price-cap del gas naturale, qualora fosse ben congeniato, sarebbe una misura utile anche alla transizione energetica, perché oltre a difendere i consumatori dai rincari eccessivi, ridurrebbe la redditività delle aziende energetiche che usano il gas naturale: nel medio-lungo termine verrebbero favorite le aziende che forniscono energia prodotta con le fonti rinnovabili.
Ci sono però diversi modi per regolamentare il price-cap del gas. Se lasceremo fare agli economicisti (i falsi economisti, che vedono la soluzione di tutti i problemi dell’esistenza nell’accrescimento economico) sorgeranno più problemi che benefici. La discussione attuale sul price-cap del gas, purtroppo, è troppo fossilizzata sull’emergenza energetica seguita alla guerra in Ucraina. La proposta politica, avanzata inizialmente da Mario Draghi in sede europea, discussa anche con Olaf Scholtz ed Emmanuel Macron nella visita a Kiev e nel vertice europeo di questi giorni, manca ancora di una definizione precisa nei suoi aspetti tecnico-operativi. Il fine politico dichiarato sarebbe quello di ridurre le importazioni di gas dalla Russia, senza un rialzo eccessivo del prezzo del gas, che indirettamente vanificherebbe l’impatto delle sanzioni economiche verso la Russia.
Per conoscere meglio come potrebbe essere attuato il price-cap del gas è necessario sapere come funziona il mercato del gas. Il gas è trasportato tra le nazioni in due modi: con i gasdotti, oppure liquefatto (Lng) via nave fino ai terminali di rigassificazione. I gasdotti sono infrastrutture rigide e molto costose da costruire. Perciò dagli anni Settanta le forniture via gasdotto si sono realizzate attraverso contratti di lungo periodo, frutto di mercati bilaterali tra paesi fornitori ed acquirenti, rappresentati da società molto spesso pubbliche, in grado di garantire l’investimento iniziale e l’uso prolungato dell’infrastruttura. Questi contratti spesso sono caratterizzati da un obbligo di fornitura in capo al paese fornitore, un obbligo di pagamento, spesso indipendentemente dalla quantità fisica ritirata, in capo all’acquirente (clausole take-or-pay). Questi contratti sono stati progressivamente accorciati nella loro durata; inoltre gli accordi quantificano i prezzi unitari di cessione del gas con formule indicizzate ad un paniere di prodotti petroliferi (benzine, oli, gas). Nelle formule di prezzo il paniere dei prodotti petroliferi è stato aggiornato periodicamente (e negli ultimi anni sono entrati con un peso via via maggiore le logiche finanziarie dei “mercati-spot”, descritti oltre). La fornitura via gas naturale liquefatto è meno rigida: potenzialmente si rivolge a qualunque acquirente interessato all’acquisto. È un mercato mondiale, dove i paesi europei competono in primo luogo con quelli asiatici. L’Europa possiede oggi una rilevante capacità di rigassificazione, prevalentemente concentrata in Spagna ed Inghilterra, con una capacità totale teorica in grado di sostituire le importazioni dalla Russia attraverso i gasdotti. Esistono comunque alcune difficoltà a gestire bene i flussi interni all’Europa per alcuni vincoli legati a strozzature della rete di gasdotti europei. Alla fine degli anni Novanta, con la liberalizzazione del mercato del gas naturale, il numero di operatori della filiera (importatori, grossisti, distributori, venditori) si è molto ampliato. Il panorama europeo oggi non è più dominato dalla grande impresa pubblica, come Eni in Italia, ma è composto anche da molti operatori privati. Nell’ultimo decennio poi si sono sviluppati in Europa anche i cosiddetti “mercati-spot” (come il “Ttf” olandese, il più influente), dove sono scambiati sia dei quantitativi di gas a breve termine, sia contratti-future (che stabiliscono prezzo e data di consegna di determinati quantitativi di gas). Questi mercati-spot inizialmente nacquero per le esigenze degli operatori, che dovevano bilanciare le richieste di fornitura dei clienti ed i quantitativi importati dai propri fornitori. I mercati-spot hanno poi hanno aumentato molto la propria rilevanza ed oggi sono diventati una nuova possibilità di arbitraggio finanziario, dove è possibile scambiare titoli appoggiati alle sottostanti commodities. Attualmente in un mercato-spot un quantitativo di gas può passare di mano più di venti volte prima di andare ad alimentare i consumatori finali. I prezzi finali determinati dai mercati spot sono gonfiati dalle speculazioni finanziarie e purtroppo sono diventati un riferimento anche per gli operatori degli accordi take-or-pay, rendendo molto volatili le condizioni d’equilibrio dei mercati (per eccessi d’offerta o di domanda. Il TtF olandese in particolare è gestito da un numero ristretto di operatori, tratta volumi relativamente esigui di gas (1-3 miliardi di euro al giorno), con prezzi di scambio che subiscono violente oscillazioni e, ciò nonostante, è diventato il mercato di riferimento, influenzando i prezzi del metano in tutta Europa. Il prezzo finale del gas negli ultimi mesi di tensione bellica è salito di oltre il 150% (raggiungendo i 300 €/MWh), influenzato molto anche il prezzo dell’energia elettrica, poiché molte delle centrali termoelettriche che fissano il prezzo all’ingrosso dell’elettricità sono alimentata a gas naturale. In futuro bisognerebbe però “disaccoppiare” il prezzo dell’energia elettrica da quello del gas naturale, soprattutto in ragione dello sviluppo degli impianti di generazione elettrica alimentati a fonti rinnovabili. Insomma il mercato dell’energia in Europa è sempre più interconnesso e complesso (meglio sarebbe dire “inutilmente complicato”), per cui ha bisogno di una pesante riforma strutturale.
In questo quadro, a fronte del conflitto ucraino e degli aumenti del prezzo del gas, si è coniata l’espressione “caro-energia”. La politica peggiore per fronteggiare il caro-energia è quella economicista, che prevede sostegni e ristori economici rivolti direttamente ai consumatori finali del gas naturale (sostegni-fossili, spesso erroneamente scambiati con il price-cap). Ad esempio sono sostegni-fossili quelli destinati alle famiglie povere o alle attività produttive energivore che, proprio grazie a questi sostegni, continuano a consumare molto gas naturale. Questa politica dei sostegni-fossili purtroppo è quella seguita dal Governo italiano a partire dall’autunno 2021: così si è scaricato sul bilancio pubblico tutto l’onere degli alti prezzi dell’energia. E’ un errore fondamentale trattare la Terra come fosse un’impresa pubblica in liquidazione. Con i sostegni-fossili si è caricato l’onere del caro-energia su tutti i contribuenti (anche quelli energeticamente più virtuosi); mentre non si è inciso minimamente né sul prezzo del gas importato dalla Russia (non c’è stato nessun impatto sulla riduzione della dipendenza di gas dalla Russia; si sono lasciati inalterati i pagamenti ed i flussi d’importazione di gas russo), né sull’eco-innovazione o sulla transizione energetica (si sono sostenuti i consumi d’energia fossile, che così restano competitivi rispetto ai consumi d’energia prodotta con le fonti rinnovabili). In sintesi questi i sostegni-fossili sono “ambientalmente dannosi”, iniqui e pressoché ininfluenti sotto il profilo geopolitico.
Alcuni interpretano erroneamente i sostegni-fossili come fossero equivalenti al price-cap. Il price-cap invece è tutt’altra cosa e, se ben congeniato, potrebbe essere la soluzione corretta, sia per schermare dal rialzo dei prezzi alcuni consumatori (famiglie a basso reddito o industrie energivore), sia per ridurre la dipendenza di gas dalla Russia (rendendo anche più incisive le sanzioni per l’invasione dell’Ucraina). Il price-cap del gas, in effetti, è invocato da numerosissimi esponenti politici italiani impegnati nella campagna elettorale, ma viene spesso male interpretato.
Il punto cruciale riguarda quale è il prezzo del gas naturale che vogliamo limitare con il price-cap: quello delle importazioni dalla Russia (price-cap all’importazione via gasdotto), oppure quello delle bollette dei consumatori finali di gas (price-cap al consumo finale).
Nel primo caso, il price-cap all’importazione si configurerebbe come un tetto europeo sul prezzo pagato alla Russia per le importazioni (es. 90-100 €/MWh). In questo caso l’Europa, come principale acquirente di gas russo, potrebbe pensare d’avere un potere negoziale significativo nei confronti di Mosca. Questa è la visione velleitaria di alcuni governi europei, tra cui quello Italiano, che equivale a fare i conti senza l’oste russo. Questa visione è impraticabile, innanzitutto perché è difficile far tornare i conti sul lato europeo, dove i compratori di gas russo sono molti, e tutti sono abituati, dopo decenni di liberalizzazione dei mercati energetici europei, ad operare in modo indipendente. Per ricostruire un singolo acquirente europeo, in grado di negoziare efficacemente con Gazprom, occorrerebbe sconfessare le logiche di liberalizzazione, attribuendo alla Commissione europea un rinnovato ruolo di “acquirente unico” per tutte le importazioni di gas dalla Russia. Poi un negoziato bilaterale Russia UE, quand’anche vi si giungesse, verrebbe condizionato dal potere negoziale del venditore russo; i fattori di debolezza dell’acquirente europeo sono molti. Sul breve termine molti Stati europei importatori non possono sostituire velocemente le forniture russe di gas con altre fonti, a meno di razionamenti energetici invernali sconfortanti. Sul medio-lungo termine poi la Russia può facilmente trovare altri acquirenti internazionali, alternativi all’UE.
Per gli Stati dell’Unione sarebbe molto più efficace applicare un price-cap-finale, che invece di pretendere sconti dalla Russia limita le bollette dei consumatori finali di gas. Il price-cap-finale è già stato applicato in Spagna e Portogallo (con un tetto di 40-70 €/MWh). In questi casi il tetto del prezzo del gas venduto ai consumatori finali grava sui fornitori-distributori “meno sostenibili”. I guadagni dei fornitori-distributori di gas calano soprattutto quando il prezzo all’ingrosso del gas acquistato dall’estero supera quello prefissato per la vendita finale. Per garantire la continuità delle forniture sul breve termine potrebbe essere pertanto necessario compensare, almeno in parte, le perdite dei fornitori-distributori di gas. In questo scenario comunque diventerebbero molto competitivi i fornitori-distributori più innovativi, quelli che commercializzano energia green. Così il price-cap-finale, quello che limita le bollette dei consumatori finali di gas naturale, potrebbe diventare un importante strumento economico a favore della transizione energetica.
Un grosso problema è che i fornitori-distributori di gas naturale sono molto influenti e certamente non intendono ridurre i propri guadagni. Un altro problema è che l’inverno è vicino: non abbiamo più tanto tempo per scongiurare i razionamenti. Servirebbe un po’ di coraggio politico del Governo dei Migliori, che dovrebbe emanare un ultimo decreto prima di togliere il disturbo, per sostituire i sostegni-fossili con un tetto ai prezzi delle bollette del gas. In questo modo noi, consumatori ben indirizzati, potremmo anche pensare di poter salvare il Pianeta. In ogni caso, comunque finiranno i negoziati sul price-cap del gas, i desideri governativi di controllare i prezzi dell’energia hanno evidenziato un fatto incontrovertibile: il fallimento del credo liberista di privatizzazione dei servizi pubblici in settori come quello dell’energia.