La transizione energetica non sarà una passeggiata.

Strada lunga
La situazione di questi mesi ha analogie con gli shock petroliferi degli anni ’70, che misero fine al boom economico degli anni ’60 e che, paradossalmente, aumentarono il potere delle imprese petrolifere.

Le imprese del settore petrolifero sono multinazionali antesignane della globalizzazione, sono tra le più grandi del mondo, sono relativamente poche e sono in regime di oligopolio. Se si accordano, possono fare “cartello” e controllare unilateralmente i prezzi di mercato dei prodotti petroliferi. Indirettamente questo si riflette anche sui prezzi del gas naturale e del carbone, che salgono trascinati da quelli dei prodotti petroliferi. In sostanza quello del petrolio è un oligopolio collusivo, caratterizzato da elevata instabilità e volatilità. In questo periodo le multinazionali stanno attraversando un periodo di profitti eccezionali, dovuti a prezzi con una fortissima valenza speculativa. Questi profitti sono indicativi, riflettono non solo il regime oligopolistico, ma anche l’instabilità politica ed un mutamento strutturale profondo.
Fino a qualche decennio fa le compagnie si dividevano le riserve di petrolio, le posizioni sul mercato ed il controllo delle fasi intermedie. Il fabbisogno finanziario per gli investimenti era molto alto, per la necessità di lavorare in aree difficili. Tutto ciò sta cambiando. Oggi il punto chiave è la soddisfazione degli azionisti: servono sempre più dividendi ricchi e crescenti. Se i dividendi non soddisfano gli azionisti il management viene cacciato dagli azionisti o sostituito, con la scalata di un concorrente. La concorrenza si limita ai gruppi di finanzieri che si comportano come lupi che quando attaccano mangiano quelli che rimangono indietro.
In questo modello d’impresa gli investimenti sono un residuo subordinato alla soddisfazione dell’esigenza principale: la remunerazione degli azionisti. Un tempo era il profitto ad essere considerato un residuo. Oggi l’investimento è ciò che si può fare dopo che si sono pagati gli azionisti. L’effetto di questa situazione è rischioso: ci sono investimenti che le imprese non faranno mai, anche se sarebbero necessari, come quelli per rendere compatibili le raffinerie. Ormai tutte le compagnie di raffinazione fanno capire che l’attuale sistema gestionale di breve periodo è l’unico possibile, poiché non conviene più investire in raffinerie e poiché la ricerca è limitata dalle tutele ambientali. Le imprese petrolifere comprimono i costi, soprattutto riducendo il numero di operai ed impiegati, cercano di aumentare la produttività, ma soprattutto cercano di aumentare ogni anno i dividendi. Salari, investimenti e dividendi sono poste antitetiche e nello scontro, al momento, l’ultima esce vincente.
Intanto i prezzi del greggio e dei relativi prodotti salgono. L’aumento dei prezzi e le preoccupazioni sulla disponibilità di prodotti energetici sta generando finalmente qualche risposta politica. L’Europa ad esempio si sta affannando per tentare di regolamentare la concorrenza di mercato, con risultati parziali comunque variabili da paese a paese. Ma il risultato è sempre lo stesso: i costi dell’energia sono alti e nessuno sembra avere un’idea chiara di cosa sta succedendo. I paesi produttori incassano. In particolare i paesi del Golfo sono diventati un potentissimo centro finanziario, mentre i Russi o qualche paese latino americano cominciano a pensare all’uso politico di tutti questi soldi. Qualche produttore, come Gazprom, favorito dalla circostanze, sta cercando di entrare in prima persona nei mercati.
Sul piano operativo inoltre la concorrenza strategica si sta spostando sempre più dal petrolio al gas. La tecnologia del GNL trasportato con navi, tende a sostituire il vecchio sistema dei grandi metanodotti internazionali e del “take or pay”, con una rete vasta di fornitori e di punti d[approvvigionamento. Le nuove fonti di gas sono a costi molto crescenti per l’Europa, perché la loro concorrenza, per quanto reale, non è capace di abbassare di molto i prezzi.
Cosa è possibile fare oggi per limitare la dipendenza energetica Europea dalle imprese e dai prodotti petroliferi (ed in particolare dell’Italia dal gas naturale)?. Non c’è un solo “silver bullet”, ma piuttosto serve un paniere di iniziative in settori e tempi diversi.
Innanzitutto a breve termine bisogna diversificare i fornitori di idrocarburi da cui ancora dipendiamo massimamente: è necessario trovare subito fonti di approvvigionamento di gas e petrolio alternative alla Russia, come lo fu negli anni ‘70 per il petrolio OPEC. Il gasdotto Transmed, che collega l’Italia all’Algeria, ha una capacità di 33 miliardi di metri cubi all’anno di cui solo due terzi utilizzati: un suo pieno utilizzo nei prossimi mesi sostituirebbe un terzo del gas russo. Ulteriori approvvigionamenti sono possibili subito con gli altri gasdotti, come il Greenstream dalla Libia, il TEMP dal nord Europa, il TAP proveniente dal Caspio e i tre terminali di rigassificazione. La produzione interna italiana di gas non è praticabile: determinerebbe troppi impatti ambientali, in relazione anche all’esiguità delle riserve presenti sul nostro territorio.
A medio termine bisogna spingere al massimo sull’efficienza energetica e sulle rinnovabili: il nostro mix energetico deve aumentare. In Italia nei prossimi tre anni si potrebbero realizzare 60 GW di rinnovabili per ridurre della metà l’import di gas russo. Entreranno in gioco, nei prossimi anni anche le Comunità energetiche locali: una delle diverse strade percorribili, non facilissime, ma sostanziali. Formule già sperimentate che realizzano il protagonismo delle comunità non solo nel fare impresa, nel fare banca, nel fare cultura, ma oggi anche nel cooperare per produrre l’energia, sia per l’autoconsumo sia per vendere quella in eccedenza. Ci vuole realismo: sarà anche utile creare scorte strategiche di gas a livello europeo come avvenne per gli stock petroliferi negli anni ‘80.
A lungo termine bisogna sviluppare una nuova economia a bassissime emissioni di carbonio. saranno necessari almeno un paio di decenni per abbandonare gli idrocarburi ed attuare una decarbonizzazione completa. Ma se dobbiamo intraprende la via della transizione energetica o lo facciamo in modo risoluto, oppure il percorso rischia di diventare fragile, impattante per l’ambiente, destabilizzante per l’economia e le democrazie.

La transizione necessita di energia abbondante, sicura, verde ed a buon mercato; è appena avviata, la strada sarà lunga e non sarà una passeggiata.

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